mercoledì 30 dicembre 2009

La Piccola Fiammiferaia



Non gradiva la vicinanza della gente. Il rumeno che la ospitava le aveva spiegato che era necessario mostrarsi docili e indifese per accendere la scintilla di senso di colpa che avrebbe condotto la mano dei passanti al portafogli. Era la Vigilia di Natale e i mendicanti si giocavano il tutto per tutto per far vergognare le signore che correvano da un negozio all’altro cariche di pacchetti colorati, con i capelli freschi di messimpiega e le unghie perfette nella nuovissima french. Se riesci a catturare la loro attenzione con quei tuoi occhioni da cucciolo e quel musetto triste – le diceva Ionut tenendola per le spalle e scrollandola un po’, tanto per sottolineare gli incisi – sei a posto: puoi cavarne anche quaranta, cinquanta euro ora di sera, se è una giornata buona. Così l’aveva spedita sul marciapiede all’angolo tra la valigeria Hermès e il negozio di Gucci vestita come la Piccola Fiammiferaia delle fiabe – ‘per solleticare gli archetipi’ diceva Ionut che, oltre che pusher e protettore di quattro minorenni biondissime originarie del suo stesso paese, è anche fine psicoanalista con simpatie junghiane.
Ma la Piccola Fiammiferaia non ama il contatto con le persone, gli sguardi incerti dentro cui vedi combattere Pena e Fastidio, Imbarazzo e Impazienza, e tu devi cacciarti nella mischia per strappare una moneta da due euro o una banconota da cinque tentando di alimentare il fuoco di Pena e Imbarazzo a furia di fiammiferi minerva offerti coi lucciconi agli occhi e il moccio al naso. Non ama il contatto con le persone, la Piccola Fiammiferaia, ma il suo lavoro sa farlo bene, prova ne sia il fatto che Ionut, la sera, non la picchia quasi mai.
Vederla all’opera è un delizioso quadretto dickensiano: tutta ranicchiata accanto alla vetrina di Hermès, coperta di strati di vestiti che potrebbero contenere tre di lei e scialli di lana colorata, con la manina sporca che allunga verso i passanti la scatoletta di fiammiferi che il più delle volte reca il logo del Four Seasons, ma nessuno sembra farci caso. E poi un uomo elegante si avvicina spinto dalla moglie in pelliccia di volpe e già porge la moneta alla bambina ma lei no: lei deve fare il suo lavoro e mostrare l’impeccabile funzionamento dell’articolo che commercia. E così eccola che sfrega il cerino sulla strisciolina rosa del pacchetto e lo tiene dritto davanti a sé, l’uomo sorride intenerito e il pio sorriso si congela e poi fonde sul viso nobiliare e la barba curata prende fuoco e il volto e il cappello. E la pelliccia della moglie e la moglie e la messimpiega con le mèches diventano una torcia e poi un falò che sembra il primo maggio e non quasi gennaio: la Piccola Fiammiferaia si riscalda e per un po’ sogna l’estate e le salsicce arrostite sulla spiaggia (l’odore è simile, tranne il pelo che brucia) e i lunghi tramonti e nessuno a parte lei a godersi il tepore sulle mani.
La Piccola Fiammiferaia si alza riponendo la bomboletta spray nella borsa dei fiammiferi, poi se ne torna verso casa. Stasera forse Ionut la picchierà, ma due salsicce arrostite sulla spiaggia valgono ben qualche sberlone.


©Laura De Matteis 2009

3.52



Le tre e quaranta di notte. Lo sapevo perché, da quando si era trasferito nell’appartamento accanto al mio, quel tale alle tre e quaranta di ogni maledettissima notte faceva scorrere l’acqua in bagno per dodici minuti esatti. L’ho cronometrato non appena mi sono accorto di una certa regolarità nelle sue occupazioni notturne. È che io ho il sonno leggero, da vecchio insonne, e in quell’appartamento i tubi dell’acqua passavano proprio nel muro accanto al mio letto.
Fatico ad addormentarmi, è sempre stato così. Una volta prendevo gli ansiolitici, poi ho deciso di selezionare le mie dipendenze e, tra l’alcol, le sigarette e il benzodiazepam, ho stabilito che solo dei primi due non potevo fare a meno. Solo che dormivo male e la sveglia suonava sempre alla stessa ora, la mattina. Dovevo alzarmi alle sei per attraversare la città in autobus e raggiungere l’ufficio in orario. Di solito mi addormentavo intorno all’una. Ma da quando il tizio del 4/B si era trasferito da chissà dove – neanche la portinaia lo sapeva, gliel’ho chiesto – riuscivo a godermi un’ora e mezza di sonno, al massimo due, prima che cominciassero a tremare i muri. Non lo sopportavo più.
Così una sera provai a parlarci. Lo sentii rincasare alle otto e aspettai un po’ prima di andare a importunarlo: pensai che si volesse sistemare, magari andare in bagno (l’inequivocabile rombo dello sciacquone confermò l’esattezza della mia ipotesi), cominciare a prepararsi la cena… Alle otto e un quarto ero davanti alla sua porta e lui mi aprì senza levare la catenella. Rimasi in silenzio per un po’ ad aspettare che dicesse qualcosa – anche un sì interrogativo – ma nulla. Mi osservava dallo spiraglio della porta con addosso un paio di pantaloni da lavoro e un maglioncino marrone da cui non spuntava alcun colletto di camicia. Io non sono un fissato, ma certe cose le noto: basta una spanna tra lo stipite e la porta, il campo visivo consentito dalla catenella tesa, per accorgersi se uno è un tipo trascurato. Non sopporto quelli che non indossano la camicia sotto il maglione: è irritante e dà l’idea di sporco. Proprio come quel tale, irritante e verosimilmente poco pulito. Poi abbassai lo sguardo e incontrai il suo piede che spuntava laggiù in un angolino, avvolto da una ciabatta ‘da uomo’, come la chiamava mia madre, di quelle che le mogli comprano appositamente quando i mariti devono andare all’ospedale. Però non credo che lui fosse sposato. Viveva solo, come me e, dal suo appartamento come dal mio, non provenivano mai voci di persone diverse; inoltre, a differenza di me, lui non accendeva la tv o, se lo faceva, la teneva a un volume così basso da risultare impercettibile.
Attesi qualche istante, dunque. Lui sembrava guardare attraverso la mia testa per fissare qualcosa di molto più interessante sul muro del corridoio alle mie spalle. Forse non mi vedeva nemmeno, non lo so. Fatto sta che non parlava.
- Buonasera, - azzardai infine, - non vorrei disturbarla. Sono il suo vicino del 6/B, abito qui accanto.
Il suo sguardo retrocesse da quel punto misterioso oltre la mia testa e incontrò finalmente i miei occhi. All’improvviso, tutta la faccenda mi parve così idiota che mi sentii a disagio nel dovergli parlare del rubinetto aperto per dodici minuti ogni notte, dalle tre e quaranta alle tre e cinquantadue. Non riuscii a trovare il coraggio per esordire con le mie lamentele e me la cavai alla bell’e meglio con un’alternativa plausibile:
- Volevo fare la sua conoscenza, - stiracchiai un sorriso di circostanza mentre lui continuava a non mostrare la minima intenzione di rispondere, né tantomeno di togliere la catenella dalla porta - e, visto che è nuovo del palazzo, volevo offrirle la mia disponibilità per qualsiasi cosa avesse bisogno.
Non riuscii ad aggiungere altro. La mia gola era così tesa che quel poco di saliva che potei racimolare mi fece male, quando provai a deglutire: ero così a disagio che mi parve di percepire ogni muscolo del collo dilatarsi con dolore, in lentissima sequenza discendente, per un istante orribilmente esteso.
Poi rispose. Aveva una voce bisbigliante e roca, astiosa, quasi scricchiolante, come i cancelli sul retro che non vengono aperti per anni… Ecco, era una voce ‘in disuso’ quella che finalmente mi raggiunse:
- Grazie, - sussurrò in una via di mezzo tra un fischio asmatico e un colpo di tosse, - ma per il momento non mi occorre nulla. Arrivederla.
Rimasi esterrefatto mentre il tale sgusciava via chiudendo silenziosamente la porta. La catenella tintinnò lievemente contro lo stipite, poi più nulla. Da un certo punto di vista mi sentivo sollevato: finalmente l’esofago e i muscoli connessi mi si rilassarono un po’, ma il suo comportamento mi aveva lasciato di sale. Sgarbato, strafottente. E intanto ero io quello che veniva svegliato tutte le notti da più di un mese da quel suo dannato lavandino. Rientrai in casa di pessimo umore, sgranando insulti e maledizioni e dirigendomi automaticamente verso il frigorifero in cerca di una birra. Una confezione nuova, da quattro bottiglie, era appoggiata sul ripiano in alto ed erano rimaste due lattine nel vano dello sportello. Ovviamente finii con l’afferrare la confezione intera.
Ci misi più del solito ad addormentarmi, quella notte – credo per la spiacevole sensazione che l’ambiguo, scorbutico vicino mi aveva lasciato – e lo odiai perciò ancora più profondamente quando, alle tre e quaranta precise, fui svegliato dalle sue tubature gorgoglianti. Mi schiacciai un cuscino sulla faccia, ma avrei voluto schiacciarlo sulla sua che, ne ero certo, sarebbe rimasta impassibile e disinteressata anche durante una morte per asfissia. Alle tre e cinquantadue la casa piombò nuovamente nel silenzio. Sospirai cercando di scacciare il nervosismo, sistemai il cuscino e, con mio grande sollievo, non molto tempo dopo mi riaddormentai.
Sognai di essere a scuola, alle elementari, e di aspettare con impazienza il suono della campanella che, alla fine della terza ora, avrebbe dato inizio alla ricreazione. Eravamo tutti seduti ai nostri banchi, composti e silenziosi, ma si percepiva con chiarezza la smania irrequieta che l’intera classe sprigionava: l’aula era satura di elettricità, come se si fosse trattato di un vapore surriscaldato che i bambini stessi emanavano. Finalmente la campanella squillò – e squillò a lungo. Nel sogno, continuava a trillare anche dopo che tutti noi bambini eravamo usciti in cortile: mangiavamo le merendine, e lei suonava; giocavamo a pallone sul campetto erboso, e quella continuava a squillare. Mi svegliai e la campanella rimbombava ancora nella mia testa. Ci misi un po’ ad accorgermi che si trattava del telefono. Mi allungai verso il comodino per afferrare la cornetta e diedi un’occhiata all’orologio: mancavano otto minuti alle quattro. Un fiume di adrenalina mi attraversò lo stomaco insieme al pensiero che si potesse trattare di una brutta notizia dai parenti o dai miei amici più cari. Risposi con un filo di voce: - Pronto?
All’altro capo nessuno parlava.
- Pronto! - ripetei agitato.
Percepivo che c’era qualcuno in linea, qualcuno che rimaneva volontariamente in silenzio. Attesi ancora qualche istante, poi riagganciai bestemmiando. Per quella notte rinunciai a dormire. Mi alzai, feci una doccia, fumai un numero imprecisato di sigarette e finii una caffettiera da sei, senza zucchero. Uscii all’alba e cercai di dimenticare il sonno e il desiderio brutale di vomitare lo stomaco così com’era concentrandomi sul lavoro per tutto il giorno. La sera mi sentivo distrutto e mi addormentai prestissimo, ancora mezzo vestito.
Le tre e quaranta.
Dodici minuti d’acqua scrosciante attraverso i tubi nel muro.
Dodici minuti di insofferenza e rabbia crescente. Poi di nuovo il silenzio della notte e, molto dopo, benedetto, il sonno.
Squillò il telefono. Ancora. Le tre e cinquantadue. Afferrai il ricevitore con furia e risposi in un sibilo, cercando di soffocare l’ira:
- Pronto.
Nessuna voce.
Tacqui anch’io, in ascolto. Lui era lì che tratteneva il respiro, lo sentivo. Trascorsi interi minuti in una battaglia silenziosa ma cruenta. Avrei voluto ucciderlo e sapevo che ne sarei stato capace. Chi era quest’uomo che entrava con una tale, discreta ed estenuante violenza nella mia vita? Cosa cercava? Perché? Non era più solo un lavandino, una tubatura rumorosa nel cuore della notte: Lui aveva attraversato il muro che ci separava strisciando nel cavo del telefono fino alla mia testa; mi guardava dormire come un demone sciatto e schifoso appollaiato sulle lancette della mia sveglia, paralizzate otto minuti prima delle quattro. Ma Lui era lì anche in qualsiasi altro minuto, ormai: io lo sentivo. Quel suo respiro trattenuto appestava tutta la mia casa.
Fu lui a riattaccare, con lentezza, come se temesse di spezzare qualcosa di estremamente prezioso appoggiando il ricevitore al suo supporto. Lo odiavo. Non riuscii più a chiudere occhio.
La mattina dopo, in autobus, pensai a tutta la faccenda e cercai di trovare un metodo efficace per risolverla. Meditai di presentarmi a casa sua la sera stessa e di affrontarlo con irruenza e determinazione, ma a cosa sarebbe servito? Avrebbe potuto dire di non saperne nulla, avrebbe potuto denunciarmi per molestie. Non avevo prove che fosse lui a chiamarmi. Forse avrei potuto costringerlo a smettere di far scorrere l’acqua a notte fonda, ma sentivo che non avrei ottenuto altro se non l’inasprirsi delle persecuzioni telefoniche: lo sapevo. Risolsi di attendere ciò che sarebbe accaduto la notte seguente e di decidere il da farsi il giorno dopo. Quella sera non riuscii a prendere sonno. Restai in attesa delle tre e quaranta. Fissavo la sveglia, immobile, mentre i secondi si dilatavano rimbombando cupi. Quel ticchettio mi entrava nel sangue, pulsava insieme alle mie vene: la stanza ne era invasa. Stavo perdendo la testa. Finalmente, la lancetta dei minuti scattò posizionandosi sull’otto con un click indifferente. Tre e quaranta.
Nessun rumore d’acqua nei tubi.
Niente.
Il silenzio inaspettato mi sconvolse. Mi sentii come tradito. Per un momento ebbi persino paura che gli fosse capitato qualcosa di grave e rimasi in ascolto con il volto accostato al muro. Poi mi irritai con me stesso per una simile, insensata preoccupazione e, dandomi dello sciocco, tornai sotto le coperte, speranzoso di poter finalmente riposare.
Il telefono squillò nel mezzo di un piacevole precipitare nel sonno. Con uno scatto mi misi a sedere e guardai l’ora, pur conoscendo già ciò che l’orologio mi avrebbe indicato: le tre e cinquantadue. Risposi, pronto a scagliare sul mio molestatore ogni genere d’improperi:
- Adesso basta! - feci in tempo a dire con voce ferma e severa.
Un urlo agghiacciante mi raggiunse dall’altro capo del telefono. Un grido che di umano aveva soltanto il profondo, sconvolgente terrore. A lungo si trascinò quell’ululato straziante, mi perforò i timpani inondando il cervello, travolgendo i miei organi uno ad uno e raggiungendo ogni angolo di me. Mi scovò l’anima lacerandola, la trama dilaniata della mia identità penzolava sanguinante dalle ossa. Quella voce, quel grido insensato si portarono via tutto ciò che ero stato e rimasi attonito ad ascoltare il segnale della linea interrotta, quando finalmente il mio carnefice decise di riagganciare.
Ero completamente sotto shock. Non ero nemmeno in grado di ricordare se avessi sentito l’urlo provenire anche dall’appartamento accanto: se fosse stato il mio vicino avrei dovuto sentirlo e, come me, tutti gli inquilini del nostro stesso piano, perfino se mi avesse chiamato dall’ultima stanza di casa sua avrei potuto sentirlo attraverso le pareti. Quel grido era impossibile da dimenticare. Mi risuonava nella testa interminabile, frenetico, folle. Vomitai sul pavimento. Con le mani che tremavano, mi accesi una sigaretta e aprii la finestra per respirare l’aria fresca della notte, ma nulla servì a calmarmi. L’urlo era dappertutto. Colava dalle pareti staccando brandelli di carta da parati ammuffita, si appiccicava agli oggetti come una patina untuosa e scura. Ogni cosa che fino a quel momento aveva fatto parte della mia quotidianità e che contribuiva a fare della mia casa un nido familiare e rassicurante – ogni soprammobile, ogni stoviglia, ogni libro – era come se fosse stata intinta nell’inchiostro dell’orrore e attraeva ora i miei incubi sulla sua superficie viscosa, strappandoli fuori dal mio inconscio con violenza.
Non potevo sopportare quel supplizio un istante di più. Mi vestii in fretta e uscii che albeggiava appena. Vagai per la città finché non mi sentii rincuorato dalla gente che cominciava ad animare i marciapiedi e dalle macchine che si incanalavano come insetti meccanici nel viale principale. Cercai un albergo e prenotai una stanza per tutta la settimana, poi entrai in un’agenzia immobiliare.
Non tornai più in quella casa. Pagai un’impresa perché si occupasse del trasloco. Ora vivo a due passi dall’ufficio, in un palazzo pieno di famiglie e qualche anziano. Di notte, spesso, mi sveglia il pianto del bambino della giovane coppia che abita sul mio pianerottolo e ad ogni suo singhiozzo disperato, ad ogni lamento capriccioso lo benedico. Non ho allacciato la linea telefonica, ma ancora, durante le mie notti agitate nonostante il Rohypnol, mi sveglio di soprassalto in un lago di sudore con quell’urlo lancinante nella mente. Allora rimango in attesa e ascolto il buio col respiro sospeso. Nel silenzio, la sveglia elettronica lampeggia i suoi numeretti rossi – e sono sempre gli stessi: 3 e 52.


©Laura De Matteis 2009

Restless Flora



Sento qualcuno avvicinarsi. Le foglie secche scricchiolano dietro i cespugli che nascondono il sentiero e che nascondono me al sentiero dove qualcuno, forse, sta passando.
Avevo quasi dimenticato di essere morta. Per fortuna sono morta supina, così ho potuto continuare a guardare i rami sopra di me e il volo degli uccelli. Man mano che le foglie si sono diradate ho potuto vedere, talvolta, anche la luna. Sono trascorsi molti giorni – buio-luce-buio – e non ho mai avuto freddo né fame: non ho avuto bisogno di chiedere aiuto. Neppure quando una cornacchia si è posata sulla mia faccia e ha cominciato a mangiucchiarmi l’occhio destro, cavando nutrienti umori da quella piccola sfera bianca e verde di cui un tempo ero tanto orgogliosa, ho sentito la necessità di andarmene da qui: mi restava il sinistro per osservare i rami, gli uccelli e il cadere delle foglie. Ma ora che qualcuno, forse, si avvicina lungo il sentiero che so essere lì ma che non vedo, ora ricordo di essere morta e di non avere voce per gridare – Trovami!
Rami spezzati, foglie secche – è autunno inoltrato. Da quanto tempo sono qui? Indosso un maglioncino di lana a righe grigie e viola e nere: mi stava bene ed era quasi nuovo. Ora è sporco di ciò che di me trasuda dal mio corpo. Probabilmente puzzo. Mi vergogno un po’ a farmi vedere così, ma non posso restare qui in eterno. Non ero sola quando sono morta, c’era qualcuno con me. Ho sentito il calore del mio sangue spandersi dal fianco lacerato; a fiotti densi ha inondato il maglioncino nuovo, poi si è sparso al suolo e l’ha bevuto, avida, la terra. La lama che mi ha trafitto il fegato non è più qui, vorrei sapere dove l’ha portata e chi.
Passi. Sempre più vicini e incerti.
Qualcuno sembra frugare nei cespugli – la lama è lì? Se la trova, poi cercherà anche me: il sangue parla, il sangue è pieno del mio nome.
Lo sento avvicinarsi e fremo come può fremere un cadavere: immobile a scagliare lampi di impazienza dalla mente – qui, vieni qui. C’è odore di muschio umido e di qualcosa che mi sfugge; sopra di me, il cielo si scurisce attraverso i rami quasi spogli. – Mi stai cercando? Ti aspetto. Ti aspettavo, chiunque tu sia, quando ancora non sapevo di volerti incontrare.
La mia memoria è un vuoto appiccicoso da cui penzolano ricordi sbrindellati; carta moschicida che attende che le larve traslucide che zampillano panciute dal mio fianco mettano le ali. In ogni mosca afferrerò un ricordo? Mi basterebbe ricordare una persona e un atto: baratterei la memoria della mia infanzia per il volto e il pensiero di chi mi ha trafitto il fegato con un coltello lungo, lama grossa, e l’ha girato come una chiave affilata nella serratura morbida del mio corpo. Quattro mandate. Cinque. Già alla prima quella mia nuova, oscena bocca spalancata vomitava sangue che andava a sparpagliarsi inutile lontano dalle mie vene.
Scricchiolio di sottobosco autunnale.
Trattengo il respiro o, meglio, irrigidisco l’anima come se stessi trattenendo il respiro. Lui è a un passo da me che brulico di vita non mia.
Fruscii che si allontanano. Il bosco sospira e tace.
Mi viene da piangere e non posso. Vorrei piangere anche solo per questo.


© Laura De Matteis 2009

Ombra di Tango



L’abito scuro pendeva dalla gruccia appesa all’anta dell’armadio.
Impeccabile. Buio.
Aveva atteso quel momento per mesi. Si era preparato a lungo, l’aveva seguita mentre tornava dal lavoro attraversando con quel suo passo caratteristico, in dissociazione, lo strepitìo inarrestabile del quartiere latino. L’aveva osservata provare le figure davanti allo specchio, le mani appoggiate al lavandino come fosse la sbarra di una ballerina vera. Aveva sorriso mentre la ascoltava parlare tra sé, rimproverarsi da sola, scuotere la testa con impazienza e pestare i piedi sul pavimento di legno quando qualcosa non le riusciva come voleva. Aveva percepito una sensazione di crollo, di elevazione, un tonfo vibrante nelle viscere quando per la prima volta l’aveva vista provarsi il vestito nero in camera da letto, svestirsi e rivestirsi come un’attrice la sera del rehearsal, restare seminuda a sistemarsi un gancetto del reggicalze e poi controllarsi le cosce allo specchio, toccarsi le forme morbide dei fianchi, dei seni, ridendo mentre giocava con la sua immagine riflessa. In quei momenti avrebbe desiderato averla subito, non dover aspettare una sola notte in più per quella carne bianca, sottile, per quelle gambe forti, flessibili come salici di fiume. I suoi capelli – raccolti o sciolti, questa sera? – scuri come una nuvola di temporale estivo e con lo stesso profumo della pioggia, dell’erba…
Ciò che lo stordiva completamente, però, era sentire la sua anima.
C’era in lei qualcosa di aguzzo, uno spirito invasivo, penetrante, che lo attraversava come un fascio di luce radioattiva. La sentiva pensare, emozionarsi, infuriarsi, eccitarsi, piangere. Vedeva il fuoco che le incendiava i piedi e il ventre, che muoveva gli ingranaggi instancabili del suo cervello; sentiva la sua forza testarda, la sua lotta di animale selvatico che sopravvive con astuzia, con cinismo spietato. Eppure era limpida. Empatica e partecipe con tutti gli esseri viventi…
E ballava il Tango. Ballava aggrappandosi al desiderio di essere guidata. Smetteva di lottare solo lì. La sua Energia, un amplesso disperato che grondava dai suoi passi, dalle braccia eloquenti, dagli occhi semichiusi, tristi…
L’aveva incontrata così, una sera di molti anni prima, nella milonga deserta. Fumava una sigaretta seduta a un tavolino, sola. Gli occhi foravano l’oscurità fumosa che riempiva la sala, le dita accarezzavano un bicchiere, pensierose. La volle subito. Nell’istante stesso in cui vide le labbra di lei posarsi sul filtro della sigaretta appena accesa seppe di volerla, di volere quelle labbra sulla sua carne, sul suo respiro. Si era avvicinato per domandarle un tango – guardava verso di lui – la mirada! – un cabeceo discreto. Spense lentamente la sigaretta nel piattino di ceramica blu, un’ombra di cenere sulla tovaglia scura, e gli occhi taglienti tornarono a guardarlo. Si stava alzando… Sarebbe stata sua. Sapeva che quel tango sarebbe durato fino alla fine del tempo – oltre il Tempo – Ovunque.
Poi qualcuno gliela portò via.
Il ricordo ora è offuscato dalla confusione che la memoria di quello stranissimo dolore gli riporta. Vede un uomo fermarsi davanti a lei e parlare. Pensa debba conoscerlo, perché sorride imbarazzata mentre cerca di rifiutare le mani che hanno già allacciato le sue e la trascinano in mezzo alla sala. Tango lento.
Ancora uno sguardo. Uno scusarsi silenzioso – “Prometto il prossimo… Non te ne andare.”
Cosa successe dopo, non sa perché non lo ricordi più.
L’ultima immagine è un voltarsi ancora verso di lei, vederla ballare come una poesia sussurrata bevendo un bicchiere di vino. Poi fuori, l’aria della sera. Una sigaretta prima di rientrare. Concedergli almeno tre balli, è doveroso – poi farsi accompagnare al tavolo.
Io sarò lì.
Dev’essere accaduto qualcosa, però. Un rumore confuso. La vede uscire in lacrime – il trucco le cola sulle guance come ruscelli di tenebra. L’uomo che prima ballava con lei le è ancora accanto, le appoggia la giacca sulle spalle scoperte e la conduce – refrattaria, adesso, indomita! – verso un’automobile ferma all’altro lato della strada.
I fari si riflettono nelle pozzanghere sul selciato mentre l’auto si allontana portandosi dietro il suo corpo, il suo profumo… L’anima rimane lì. La vede infrangersi nelle luci spezzate, sopra un telo bianco, sopra le voci concitate che si accavallano una sull’altra in un caos insopportabile.
Fu da quella notte che cominciò a seguirla per riprendersi quel tango interrotto con violenza, per riprendersi l’emozione, la vita. Lei però non ballò più.
Trascorsero diversi mesi prima che tornasse a muovere timidamente alcuni passi, chiusa nella sua stanza, sovrappensiero – mentre riassettava, mentre stendeva il bucato ad asciugare sopra la vasca da bagno, mentre sorseggiava il caffè guardando fuori dalla finestra… Un giorno – fuori pioveva – mise su un disco e chiuse gli occhi.
Si mise a danzare con la pioggia, in equilibrio perfetto. Le braccia che stringevano l’aria come se fosse un uomo disperatamente atteso.
Quel giorno lui sorrise. Sapeva che avrebbe soltanto dovuto aspettare il momento giusto, e una notte lei sarebbe tornata in milonga – lui sarebbe stato lì e tutto sarebbe continuato come se non fosse trascorso nemmeno un istante: tutto come sarebbe dovuto essere.
La sentiva sotto le sue mani, ora che la vedeva scivolare nella penombra della piccola stanza al terzo piano, ad occhi chiusi, quasi fluttuante tra i mobili disposti con casualità in mezzo a scarpe e vestiti abbandonati. Sentiva che anche lei stava pensando di ballare con lui – anima nell’anima – agganciati.
Continuarono così per molti mesi. Il lavoro, la spesa nel mercato sotto casa, la colazione al bar – stesso tavolino, stesso caffè. Ogni tanto, un’amica la portava a bere in un locale dove suonavano Jazz e la faceva ridere fino alle lacrime – il trucco cola in bagliori azzurri, ora, il respiro spezzato, le mani che si agitano davanti al viso come a negare, a nascondere la fuga liberatoria verso un’adolescenza lontana… Lui era sempre lì, da qualche parte, a sorridere, a nutrirsi del profumo di donna che arrivava fino a lui come uno schiaffo quando, accavallando le gambe con noncuranza, un raggio di carne risplendeva furtivo. Era lì, seduto due tavoli più in là, a fumare le sue stesse sigarette, ad assaporare col pensiero le sue labbra rosse, socchiuse.
Finalmente, un pomeriggio la vide entrare in un negozio dell’affollato quartiere latino. La vetrina stretta, stipata di vestiti, sembrava riflettere i colori della frutta che occhieggiava ai passanti dalle cassette ordinate nel carretto di un ambulante, sul marciapiede. Non osò seguirla dentro il piccolo negozio: la immaginò soltanto mentre sceglieva con attenzione l’abito più adatto a lei, quello in cui si sarebbe sentita di nuovo a proprio agio, quello dentro il quale avrebbe camminato ancora, come un drago strisciante, sul pavimento sporco di una sala da ballo – e sarebbe stato nero, lo sapeva.
Uscì con il sorriso soddisfatto di chi abbia appena compiuto con gran gusto un’azione riprovevole e una busta di cartone blu, la scritta rossa “Lady Marie’s” che dondolava rimbalzando contro la sua gamba di salice, mentre attraversava la strada. Dall’altra parte l’aspettava l’uomo della milonga, il rapitore di quella sera lontana. Si erano incontrati molte volte da allora: aveva visto spesso quell’uomo fermo ad aspettarla davanti al portone di casa, la sera, al ritorno dal lavoro. Chiacchieravano un po’, ogni tanto lei sorrideva sistemandosi una ciocca di capelli, poi si salutavano con un bacio sulla guancia e lei spariva dietro il portone verde, sola. L’uomo rimaneva a guardare la finestra al terzo piano finché nella stanza non si accendeva la luce e una mano discreta avvicinava le tende amaranto. In quel momento, sulla facciata del palazzo era come se si aprisse un occhio di fuoco screziato dall’ombra di lei che si muoveva come uno spirito attraverso le fiamme del suo inferno domestico. L’uomo fissava quel bagliore per qualche istante ancora, poi si incamminava lentamente verso il viale alberato, verso il tunnel del metrò.

Quel pomeriggio non si allontanò. Non si salutarono sulla soglia: rimasero a parlare a lungo, sempre più vicini. La busta “Lady Marie’s” cadde ai piedi di lei come un vestito stanco. Mentre l’uomo cercava di abbracciarla, scosse la testa più volte, sempre più debole, sfinita, finché non appoggiò la fronte sulla spalla di lui e pianse silenziosa.
Salirono nella stanza al terzo piano tenendosi abbracciati.
Il vecchio portone verde si chiuse complice alle loro spalle. La tenda rossa non si accostò – per molte ore un occhio di luce balenò sulla facciata assopita, poi si spense.
Lui restò lì, sul marciapiede di fronte, come trafitto da una lancia di nulla. La notte si sciolse lenta nella foschia di un’alba incerta, viscida sotto i piedi di lui che rimaneva immobile a fissare il silenzio, a contemplare il dolore che gli scorreva sull’anima come olio bollente gettatogli addosso da un dio impietoso. Sentiva il ghigno sordido del Sadico Burattinaio che governava i fili della sua esistenza con il piacere perverso di annientarlo, e quando giunse il giorno – un giorno grigio come l’abito cosparso di rugiada che indossava – lui, annientato, si allontanò.
Non volle più passare accanto a quella casa. Vagava inosservato, stordito, per le strade rumorose; le risate della gente ferma a chiacchierare davanti ai negozi, le corse dei bambini tra le gambe delle madri, giungevano al suo spirito come pugnali nella carne. Non voleva pensarla – non poteva! – eppure la vedeva continuamente riflessa dietro lo schermo delle sue palpebre chiuse, la sentiva vivere… Sentiva il suo calore, il profumo della sua pelle mentre amava quell’uomo – l’odore di entrambi, mischiati: corpi fusi tra le lenzuola di cotone. Le sue cosce allacciate ai fianchi di lui, le lacrime che lasciavano i suoi occhi nell’orgasmo, l’abbandonarsi sereno nell’abbraccio muto del sonno…
Una sera decise di tornare alla milonga dove l’aveva incontrata la prima volta – quanto tempo era passato? Non riusciva a immaginarlo. Aveva atteso quel momento tanto a lungo… L’abito scuro pendeva dalla gruccia appesa all’anta dell’armadio. Impeccabile. La percezione dello scorrere dei giorni, delle ore, era come dilatata nella sua mente che sembrava dominare tempo e spazio dall’Oltre, come in volo sopra una pianura sconfinata dove si riversavano i fiumi di migliaia di esistenze estranee e non più estranee, insieme. Non sapeva se lei ci sarebbe stata. Aveva smesso di seguirla, di osservarla vivere. L’aveva persa e aveva scelto di non lottare più, eppure adesso era di nuovo lì, davanti agli scalini che scendevano nella sala dal pavimento di legno e i tavolini con i posacenere blu. Sedette allo stesso tavolo di quella sera lontana, in penombra.
Lei non c’era.
Il fumo avvolgeva l’immagine di coloro che ballavano rendendoli incerti fantasmi sospesi a mezz’aria, volteggianti come i dannati del secondo cerchio dantesco – stretti e dolenti, eppure più forti della morte che divide: eternamente fusi. La musica attraversava la carne, lacerava lo spirito nel bisogno fisico di lei, nel desiderio. Il ricordo di quella sera tornava vivido – un dolore acuto al ventre, alla schiena, una luce insostenibile che sfuma lenta nel buio incosciente…
Poi arrivò.
La vide entrare guardandosi attorno con aria incerta, intimorita. Indossava un abito di raso nero, quello che le aveva visto provare tante volte davanti allo specchio, nelle solitarie rappresentazioni della sua bellezza... Sapeva perfettamente anche quale biancheria indossasse, poteva vederne le piccole cuciture che fermavano i nastri al pizzo nero che aderiva alla sua pelle come uno svolazzo d’inchiostro, un tatuaggio mobile e pulsante sotto l’allusiva in-decenza del raso. Lo spirito sprofondò nell’abisso verticale senza un rumore, risucchiato da una forza incontrollabile alla quale non desiderava opporsi più.
Quando i loro sguardi si incrociarono, il timido disagio scomparve dai suoi occhi che improvvisamente si fecero fieri, profondi, consapevoli. Attraversò la sala con fermezza per raggiungere lo stesso tavolo di allora – i salici delle sue gambe ondeggiavano dentro le scarpe rosse restituendo l’immagine di un demone con i piedi ancora immersi nel fuoco dell’inferno. Sedette lentamente ed accese una sigaretta – gli occhi sempre fissi su di lui.
Quando si alzò, l’uomo sentì le gambe cedere dentro l’ abito scuro, un brivido lo percorse come una scarica elettrica, migliaia di istantanee del corpo di lei gli ferirono il cervello come la luce abbagliante di un faro, il suo odore lo travolse trascinandolo nell’estasi dolorosa del ricordo. Lei continuava a guardarlo. Qualche passo. La musica cambiava. Un celebre tango apasionado lo spinse verso di lei, la mano che si tendeva discreta mentre lei si alzava. La donna si voltò un istante, tolse una piccola rosa selvatica dalla borsetta che aveva posato sulla sedia accanto, poi continuò ad avanzare verso di lui – gli occhi fieri, pieni di lacrime.
Fu in quel momento che cominciò l’Eterno.
Lei lo attraversò guardando oltre il suo viso sconvolto dall’angoscia della Comprensione: guardava il tavolo dove lui era seduto, e la tovaglia scura.
La vide poggiare la piccola rosa rosso cupo proprio dove lui si trovava fino a poco prima, quella sera lontana, poi chinarsi e piangere – le spalle bianche sussultavano scivolando meravigliose tra le spalline sottili dell’abito nero. L’uomo di quella sera e delle molte altre nell’appartamento al terzo piano finalmente si avvicinò e la strinse – l’aveva visto entrare insieme a lei ma non aveva voluto vederlo fermarsi accanto alle scale, discreto, in attesa di veder compiersi un rito dal quale egli si sapeva escluso. Lei ricambiò l’abbraccio, con le mani asciugò le poche lacrime che ancora le rigavano il viso e si lasciò condurre via, attraverso il fumo denso delle sigarette accese, attraverso l’odore delle decine di corpi persi uno dentro l’altro nel loro amplesso tanguero.
La vide voltarsi ancora una volta poco prima di salire le scale per uscire. Ancora uno sguardo alla rosa abbandonata sul tavolino vuoto, uno sguardo ancora a lui che pian piano si allontanava dal suo abito scuro – Impeccabile. Buio. – evaporando nel fumo azzurrino.
Spegnendosi come un’eco, come l’ultima immagine prima di scivolare nel sonno, le note sfumavano nella milonga lontana.
Lui non era più.



©Laura De Matteis 2009