sabato 20 agosto 2011

Omphalos



Non tu, che non conosci il sapore verdeumido dei muschi quando ci affondi il viso come nel grembo di una donna. Non puoi parlare d'acqua se non sei acqua che sa il colore della terra mentre sgorga accarezzando radici attorcigliate e ha milioni di dita morbide per milioni di steli di muschi seduti su brandelli fertili tra roccia e roccia. Non parlare di noi, se non conosci. Né di me che siedo come rana sacra con i piedi d'ocra scura col ventre immerso, le braccia nell'erba appesantita e il capo rivolto alla cima degli alberi che scuotono ogni respiro vapore trascorrente che va a posarsi piano sulla schiena inarcata dei noccioli e sulla mia.

I cimiteri sono pieni di pietre itifalliche a forma di croce che è un fallo interrato per metà, non è una spada. Ma non puoi vederlo se non è tuo il grande ventre che si schiude come una grotta, un ipogeo per processioni di ossa e di serpenti. Ora parlo per me e per la pioggia.

Ricordo quando la gente uccideva i rospi. Io ero piccola, li vedevo sollevati con la pala e portati via da mio padre che agiva governato da precetti appresi chissà dove, forse nel cuore di coloro che cercano demòni in dèi che non vogliono conoscere o non sanno più, oppure da quel dio infibulatore che passa i secoli a tendere tranelli agli uomini come il cattivo dei fumetti che reclama l'attenzione di un eroe che lo uccida una volta per tutte, ché a vivere così non ne può più. Un miserabile dio afflitto dall'ottusa demenza dei vecchi che hanno trascorso l'esistenza a occludersi le arterie con il grasso degli animali uccisi, un dio con le mani impiastricciate di colla per uccelli. Grottesco col suo vestito mediorientale e i sandali di cuoio quassù, che sarebbe morto di freddo mille volte o di tubercolosi come qualsiasi puttana vittoriana, non di croci falliche a stillare sangue e acqua su terra brulla dalla ferita sbagliata.

Mio padre uccideva i rospi, credo. L'ha sempre fatto lontano dai miei occhi, però, come ogni cosa che non si fa davanti agli occhi dei bambini, che è come dire che è sbagliata, e così io sono cresciuta rana.

Non voglio più parlare per me sola e per la pioggia, ora. Prova ad ascoltarmi tu, che emergi come me dall'erba alta e che ti vedo appena, quando il vento sposta le onde verdi davanti al grigio dell'omphalos che sorge al centro di te.
Ascolta.
Ho parole incise su pietre di telai.


sabato 13 agosto 2011

Fine d'Estate



Avevo i capelli color fuoco mentre attraversavo la pianura verso nord scansando i corvi e gli aironi immobili sull'autostrada. Il tramonto a sinistra lacerava le nuvole sottili lanciando rasoi di luce rosa sulle risaie ordinate. L'albero sulla traccia di un confine, l'argine netto di un canale.
C'è chi beve di me e chi è bevuto.
Campi di gigli scoppiettanti, macchie arancioni lungo i fossi scoscesi, fiamme votive sparse da mani invisibili che seminano altari gocciolandoli da un secchio colmo scosso da un bambino che corre verso casa.
Pòrtane qui, dove si sta sciogliendo il riflesso di Luna umida sull'acqua: è già notte senza crepuscolo, senza sera, senza. Notte. Semina qui i tuoi altari arancioni lontano dalle rane dei fossi che celebrano i loro culti cantando nell'erba alta quando nessuno le vede, sempre. Spargi i tuoi semi scuri che daranno bacche aspre e rami attorcigliati e spine.
Voglia di vapori di bosco e di respiri lievi che sembrano fantasmi nel giorno in cui ridono tutti da qualche parte ma è silenzio e sembra scomparsa dal mondo la razza umana parassita, rampicante sui tronchi morti da vent'anni.
Accendo lumi di fiori di fosso in attesa del canto delle rane. Il giorno è immobile insieme agli aironi del ricordo bianco sulla gamba sottile. Il germano plana senza grazia spanciando sull'acqua che schizza intorno ma non fa rumore.
E' tutto fermo, oggi. Mi addormento.


giovedì 21 luglio 2011

Pendolo Lento



Diamo un tempo al nostro passaggio, l'oscillazione di un pendolo lento.
Mentre il peso si tende come un punto su una circonferenza incompleta,
prendiamo forma di collina morbida coperta d'erba
e respiriamo muovendo le radici dei piccoli arbusti
che ci ornano il ventre.

Siamo abitati da mille anime che ci solcano
il calore della pelle come navi trasparenti,
bisbigliando.

Ascoltarle può rendere saggi e
può rendere pazzi,
ignorarle
svuota gli occhi,
soffoca il pensiero,
accelera il pendolo che in un rintocco svelto
scricchiola e muore.


sabato 16 luglio 2011

Corpse-candles



Cadenze gocciolanti,
musica che profuma di muschio e tintinna l'incantesimo
per aprire la bocca dei morti e l'occhio
dell'uomo senza luce.

Come l'albero,
i piedi succhiano stringhe semiliquide,
umori custoditi nelle pieghe fangose della cervice del mondo.

Danze Macabre nelle narici degli obitori
che furono reparti neonatali
che furono bordelli
che furono negozi di cappelli per signora.

Poi
via dai deliziosi zampilli
decadenti dell'autunno
già scritto nel gorgogliare di qualcosa che muore
piano tra le foglie.
Via
dal vapore ascendente delle stoppie
abbandonate umide
dove non passa che il tempo.

Nel giorno molle
anche il pensiero è umido.

Chi può
non torna neanche a casa.


venerdì 10 giugno 2011

Ierogamia



La Dea Uccello ha il seno grande,
il becco di civetta e il collo
di canna di palude.

Incisi sul ventre linee d’acqua e serpenti attorcigliati.

I tamburi scendono dal dorso inclinato della terra
come scrosci di fango versati dal temporale nei pendii
mentre lenta la Dea
incede in bellezza
e la vita germoglia sotto i suoi piedi.

Gli alberi si levano lenti per raggiungerla,
tendono al grembo scuro come i cervi,
i muscoli inquieti
dentro le cosce brune.

Vedo le ombre inseguirsi
nell’odore della pioggia intrappolata nei tronchi,
braccia che si allacciano e si sciolgono in vapori notturni,
respiri trattenuti,
risate verdi quando le gambe
inarcate
raccolgono gli umori del mattino.

E più nessuno
ha orecchie per udire
che non siano polverosa argilla
che si frantuma in grandine prima di toccare il suolo
e i rintocchi del ghiaccio sono il sangue che scorre
lontano dal cuore e dal cervello,
che esce dalle conche del sesso
per bere nella bocca della terra.

La Luna del Raccolto sorge lenta,
la coda di galassia è un velo scuro,
le lucciole
stanno
dove la sabbia si mischia con gli arbusti e con l’acqua
dolce
che di notte scalda
i passi del mattino.

Gli occhi della triplice Signora versano
fuochi di lanterna sullo specchio
increspato
che sparge il suo seme sulla riva
concava
dove corpi trascorrenti attendono
i loro abitanti immortali.

Si fermano le danze degli alberi
in spirali viola e melograni.
Sostano le lucciole,
la sabbia e il vento.
L’acqua sussulta appena
mentre l’ultima onda raggiunge
calda
la riva scossa
e il Tempo
sprofonda nell’orgasmo
del vuoto del mondo
un momento
sempre

per poi ricominciare.


mercoledì 8 giugno 2011

Ansuz



Le dita scelgono senza occhi ciò che lo spirito dalle lunghe braccia vuole.

Sono arrivati i violini. Non chiediamo loro di sciogliere i lacci di rame che ci stringono il collo e i fianchi: sono le bende a farci sacerdoti. Ricordo la giovane cieca dai capelli gialli sacrificata ai margini della torbiera. Fu un dono che gli dèi non apprezzarono. L'offerta è preferita viva, piena di danze, canti, pene d'amore e di sorrisi. Non fu apprezzata morta dentro la palude, coperta di graticci come un mantello di sposa. Perciò gli uomini furono dimenticati.
Oltre ai violini, scendono dalla montagna nuvole basse, pesanti di pioggia irresoluta, e con fatica scavalcano gli alberi dalle chiome panciute quasi estive che si stendono attraverso il Solstizio e sono sentieri verdi tra i mondi e le stagioni, strade in cui perdersi con la grazia svagata delle lucciole per mutare allitterando con il Tempo in labiali ed occlusive come baci.

Grigio d'ombra chiara. Non desidero parlare al tuo posto nell'assemblea di coloro che accarezzano i fili d'erba chiedendo consiglio: io incido rune su bacchette di faggio e di nocciolo e mi lascio spettinare dai rami penduli, pungenti come falci di Luna quando il Sole tramonta e Lei è lì, trasparente nella luce cedevole del giorno, e non lo può toccare e inappagata trafigge il sudario del cielo generando stelle indispettite.

Piccola Vita, parli di numerosi Altrove e non ti voglio distrarre - mi piace la tua voce sussurrante e ventosa. Capisco il tuo dondolare sul limite dei temporali perché siano in pochi a raccoglierti, così porto con me ciotole di creta cotte nelle buche di terra grassa e soffocate con la paglia dell'anno nuovo perché tu possa caderci dentro aggrappata ai tuoi segreti, almeno alcuni. Poi sarai Tu a condurmi nella vasta sala illuminata dai fuochi di maggio da cui sento giungere l'eco smorzato di un banchetto, mi verserai da bere e siederemo vicine come vecchie amiche, a raccontarci i fili silenziosi tessuti dagli anni, un po' ubriache.

Un piccolo messaggero maltrattato scende a scuotere le ali trasparenti accanto ai miei polsi. Chiede miele per il viaggio di ritorno. Ne ho di tarassaco odoroso ed è felice di muovere le zampe filiformi sugli occhi che volgono in cerchio sul passato e sul futuro. Riposa un po', se vuoi. Ho mani morbide come lenzuola e calde come il giorno che decisi di guardare oltre lo sguardo del mondo e il mondo si aprì. Vedo lontano. Non mi disturbi. Racconta.


giovedì 2 giugno 2011

Fusione



Ti aspetterò nella morbida sonnolenza del crepuscolo
e farò scorrere le mie dita sulla tua pelle d'ambra trasparente
per conoscerti,
per incidere il mio nome sui tuoi fianchi.

Viandante silenzioso,
cammini nella sera ombrosa raccogliendo steli d'eliotropio,
adorni il mio letto di bacche sanguinanti
e io ti accolgo come accolgo le onde,
nel buio che danza tra le tende bianche della tua stanza.



Sorgenti



Lasciami intingere le dita nel giorno che si scioglie:
ne ho sorseggiato un po’ tornando verso casa.
Tango acido.
Gli occhi sceglievano opportuni interstizi tra gli alberi
per deporre le loro uova di vetro luminoso.
Era bella la sera e umida.
I boschi si gonfiavano come seni di ninfe
stillanti assenzio,
tre faggi assopiti reggevano
il piano del cielo.
La venditrice di violette attraversa la strada
per rientrare tra le pagine di Dickens con un sigaro cubano tra le dita
mentre le donne dai capelli raccolti
brindano alla fine del giorno con un aperitivo leggero,
sanguinante.
Non riesco a ricordare dove ho nascosto le scarpe da ballo.
Si avvicina una civetta con rumore di pioggia tra le ali.
Scrivi una canzone per me, mentre attraversi i fossi sui torrenti:
parole a precipizio come l’acqua
e come l’acqua battenti sulle vene dei polsi ancora accesi
nel palpito in quattro quarti
e mezzo quarto di luna.
Bevi dalla mia bocca mentre ascolti.
Tango silvestre.
Una goccia.
Labbra silvestri.
La tua.
Ti assaggio lentamente,
poi il giorno finisce.



PaganaMente



Si aggrappano al desiderio lenzuola di lino.
Passioni crocifisse sul filo da bucato.
Deposizioni convulse –
Ancora no! Io vivo!
E tu lontano.

Non mi spiego questo amore trasversale
nell’aridità sconosciuta delle tempeste boscose,
questo mare turbolento,
i faggi fallout rosso damasco,
il riverbero bianco sulle rocce,
violento
come il lampo che lacera la notte,
stanotte.

Non perdonarmi, dio senza voce,
dio dalle agili mani trasparenti,
dio di carne e carnefice,
dio che voglio amare
io,
Dafne dai rami spogli e morbidi
e sangue rosso damasco come i faggi,
ninfa che non fugge in foglie odorose
da te
ma rimane e tende il suo corpo di donna –

Ecco.
Io ti sto amando in parole.



domenica 22 maggio 2011

Meditazione



Ci chiedevano di inginocchiarci al buio con una candela davanti e meditare. Bruciare incenso e immaginare le sue volute grigie raggiungerci e attorcigliarsi a noi come serpenti odorosi.
Non ci riesco. La mente scavalca la volontà e si libera in pensieri autonomi, come sogni coscienti che posso afferrare e muovere, nastri di organza senza peso che spingo lontano muovendo le braccia come ali di vetro.
Gli ulivi inanellano minuscoli fiori chiari che tremano aspettando la tempesta e il bosco pulsante sembra un'arpa di ossa che respirano, lo sterno si alza e si abbassa mandando lamenti che l'aria raccoglie nel grembo azzurro e porta fino a me e al mio meditare titanico e insonne.
Dalla finestra degli occhi vedo gli Spiriti di cui sono scrigno tutte le cose.
E c'è gioia e disinteresse benevolo per le vicende degli uomini. Divinità distratte non sanno meditare su di me se non li chiamo in un Cerchio dove possa riempirmi della loro bellezza elementare, parlare attraverso i miei multipli corpi silenziosi e danzanti, osservare gli antenati che procedono lungo il fiume conversando o tacendo - come fanno in molti, non avendo più nulla da chiedersi.
E' sereno il pomeriggio nelle nuvole che occultano il fardello del Sole facendomi presagire la sera che scende quasi di un quarto di Luna verso la saggezza del buio. Un uomo sbriciola pane secco sull'acqua perché accorrano i germani schiamazzanti che portano la parola della madre gravida del mondo ed è quasi pioggia mentre scricchiolano i merli il becco giallo sui semi della stagione trascorsa.
Non importa.
Le dita dell'incenso si assottigliano e Mjolnir rimbomba in lontananza. Ho spento la candela. Gli dèi tornano ai loro banchetti di idromele e io ai miei giorni decidui, certa che ovunque intorno a me si diramino i sentieri dell'immortalità.


Playlist



Non sono abituata a infilarmi gli auricolari e ascoltare musica. L'ho fatto oggi, ossessivamente, per cercare di ricavarmi una dimensione diversa da quella in cui mi trovavo a trascorrere le ore. Ho scelto poche canzoni - per la maggior parte del tempo soltanto due - e mi sono ascoltata ascoltarle.

Ho una scheggia nel polpastrello del dito indice della mano destra. Non fa male, mi si è infilata lì mentre sbriciolavo le foglie secche di faggio per farne incenso o incantesimi. Non fa male: ricorda che il legno può penetrarci senza ferire e far parte di noi - Dafne, lo sai.

Ora si apre una finestra stretta nel fianco di una parete di sasso. Da lì sentiamo precipitarsi il mare in fondo a un abisso d'aria che sembra di vedere in vortici grigi senza foglie, solo minuscole gocce salate trasportate dal vento fino ai nostri occhi serrati. Poi arriva lui, lo stesso che cerca di portarmi a letto da anni, a ogni Luna piena. Ha lo stesso sguardo da animale selvatico di ogni volta, mentre io ho lo stesso sguardo da lupo mentre lo annuso da lontano. Il suo odore trasportato dal buio è infinite particelle di ricordi schizzatemi in faccia insieme al turbinio del mare nel vento sulla torre. Ricordi non miei, di tutti. Ci sono torbiere e nebbia, cammini su sentieri rocciosi che si arrampicano fino alle montagne, pozze imputridite, voli di insetti. Ma non vado con lui, né con i ricordi che porta.
Torno alla profonda strombatura della finestra di sasso e guardo giù un'àgave che proietta il suo germoglio estremo sul precipizio che cova onde schiumose. Lanciarmi oltre l'àgave, oltre il mare, farmi accogliere da dèi capricciosi che attraversano il trascorrere del Tempo su carri scuri trainati da capre digrignanti. E capisco che non c'è nulla da rimpiangere, solo leggere i segni del passare dei carri divini mischiati al chiarore del crepuscolo e aspettare di saperne di più - dopo le finestre chiuse, le àgavi erette, il mare ribollente e gli uomini sognati dentro una canzone sexy, con gli occhi da animale selvatico e le dita svelte di chi tocca corde di chitarra e carne femminile.


domenica 27 marzo 2011

Senza titolo



Vorrei che fosse sacrificale, non celato e puro.
Una variazione grottesca di fantasie di modeste palingenesi, altari babilonesi, forse all'ingresso di Ninive accanto ai covoni del grano.
Vorrei che fosse sconsiderato, inetto, inconsapevole,
un tributo pagato con grazia alla dea della morte e della vita,
della guerra che indossa la stessa maschera di fertilità minacciosa che le donne espongono quando la luna è quasi piena e digrignano i denti contro le loro pance vuote e gli scivoli di pietra inefficaci.
Eppure le piante non celebrano, non sciolgono voti.
Così. Lo vorrei così, dentro passanti sconosciuti che lasciano cadere una moneta d'argento nella ciotola delle offerte e sanno di compiere la volontà del campo, del proprio pane sopra la stuoia pulita, dell'otre della moglie che cova silenziosa mentre la dispensatrice di morte e vita si compiace e vibra mentre vibrano, mentre vibro.
O forse no.
Forse lo voglio assente, lo voglio nel pensiero, solo lì, dove originano il campo e gli scivoli di pietra e il pane e i figli degli otri delle donne, dove originano gli dèi e i loro passi metallici e la vita e l'erba e la guerra che riduce la competizione per le donne e gli otri e i figli mentre la dea sorride e indica
- di là.



venerdì 21 gennaio 2011

Ottobre 1917



Sedeva sulla poltrona marrone, quella dietro il muretto che separava il salottino dal tavolo da pranzo. I capelli scuri, lunghissimi, raccolti in due trecce attorcigliate sulla nuca.
Era quasi sera, l’autunno inoltrato del 1917. Sedeva in silenzio nella penombra che avanzava, le mani sfogliavano un piccolo album dalla copertina di tela rossa. Tra le pagine, cartoline illustrate raccontavano la guerra: donne rapite, orfani, soldati al fronte che portavano orgogliosi la bandiera italiana attraverso le trincee, lo sguardo fisso sulle schiere nemiche, e le montagne – le montagne ovunque, gelide, impassibili, che si lasciavano scorrere addosso sangue, lamenti e morte. L’Isonzo scorreva poco lontano, dietro un piccolo avvallamento del terreno. Per tutto il giorno si era sentito lo scoppio dell’artiglieria e nubi di polvere si erano alzate marroni dietro la curva dell'orizzone. La donna raccolse una cartolina e la lesse ancora una volta: erano le ultime parole che aveva ricevuto da lui, quasi tre mesi prima. Dopo, più nulla.
Si alzò lentamente, con dolore, come se il buio che ormai avviluppava la stanza fosse fatto di lame – baionette di oscurità che le infilzavano il petto come una madonna piangente. Si alzò e andò a riporre l’album dentro la scatola che lo custodiva da più di due anni, nel terzo cassetto del comò, dove aveva cominciato a raccogliere la biancheria nuova prima che la guerra sospendesse il tempo e la vita nel fiume sotterraneo dei morti, del gas e della sete.
Sentì freddo nel scendere le scale – un freddo che arrivava da lontano, dall’acqua putrida e gelata nella quale sprofondavano le gambe dei suoi tre fratelli, dei suoi amici, di tutti i ragazzi del paese… Dove sprofondavano le gambe di Pietro, se l’acqua non si era già presa anche tutto il resto, devastato dalle mazze ferrate degli austriaci nel feroce corpo a corpo, in trincea. La donna tornò indietro per indossare uno scialle pensante. Risalì le scale per scendere di nuovo poco dopo, nel buio più completo, avvolta in un vecchio mantello di lana grigia.

La stalla si trovava poche decine di metri più su, verso il fiume. Vi si diresse con passo fermo, attraversando il sentiero che si staccava dalla casa accompagnato dai sassi piatti che ne pavimentavano l’ingresso e che andavano via via disperdendosi fino a scomparire in una stradina quasi invisibile, in mezzo al prato. La stalla era soffocata dal silenzio della sera come un cadavere in un sudario sporco. Gli animali non c’erano più: l’esercito, passando, li aveva portati con sé ed ora rimaneva di loro soltanto l’odore dimenticato nel fieno e nel calore delle pareti di legno. La porta era socchiusa. L’oscurità, attraversata da brevi bagliori che filtravano dalle assi sconnesse.

- Ti aspettavo. Pensavo non saresti venuta più…

La divisa austriaca giace sulla paglia. Sul mantello di lana grigia due corpi avvinghiati. Corpi segnati dalla fame, dal freddo, dall’orrore… Corpi nemici che cercano di gridarsi l’un l’altro:

“Caporetto, 22 ottobre 1917. Sono ancora vivo.”


giovedì 6 gennaio 2011

Frammento Siciliano



Le sue parole avevano la stessa consistenza del fumo azzurrino esalato da un braciere. L’aroma ipnotico di un velo d’assenzio sulla lingua, la singolare fragranza di cannella che persiste dentro la tazza vuota. Soltanto lì camminavo a piedi nudi sul pavimento di ceramica: c’era un terrazzo coperto di maioliche di scarto e mi perdevo a scoprirne gli incastri sotto il sole, a intuirne i disegni frondosi, i labirinti geometrici e i cavalli tesi al galoppo che conducevano paladini furiosi contro i mori. Allegoria cosmica, dicevo, metafora terrestre isterica e sinfonica, come il rumore del mare che proveniva dagli scogli taglienti che raggiungevamo con la barca per lasciarci imprigionare da tentacoli d’alghe finché non potevo più distinguere le mille braccia del mare dalle sue, il sale dalle labbra sapienti, le onde dal moto cadenzato dei suoi fianchi. Mi sono lasciata amare da un tritone, ripetevo sussurrando alla sua pelle quando mi abbandonavo sui minuscoli ciottoli della riva lasciandomi accarezzare dall’acqua più calda delle sue mani. Lui sorrideva, poi mi riempiva i capelli di alghe verdi e mi chiamava Egeria. Io ribattevo Phlebas e il tramonto ci sorprendeva a dondolare nella nenia dell’acqua, ancora uniti.
La casa era in cima al paese, circondata da agavi pazienti, polvere e sole. Mi svegliai tra le lenzuola di lino, rigide e fresche come un frusciare di foglie, l’odore del caffè mi scivolava sugli occhi, l’aria che entrava dalla porta socchiusa del terrazzo mi scorreva in tonde spirali sulle spalle come un filo di perle. Il rumore del mattino era color ocra, tintinnava come una manciata di monetine sulla strada di pietra levigata dai passi, dai giochi, dai carretti, dalle processioni dei santi, dai soldati, dai funerali, dall’incedere assonnato dell’uomo dei giornali, con la sigaretta accesa. Il mattino picchiettava con le unghie del sole sui vetri tiepidi, lanciava sassolini di luce sulle persiane screpolate, sbirciava tra le tende di organza per accorgersi del mio respiro. Lui si avvicinò silenzioso. Talvolta mi osservava sorridere con gli occhi ancora chiusi, incerta, indolente, sazia di sonno ed ebbra del profumo di noi sopra il cuscino. Accarezzò un lembo del lenzuolo, ne sgranò l’orlo ricamato a giorno come un rosario bianco sotto le dita brune. Le sue mani erano i tasti neri di un pianoforte in do diesis maggiore: inspiegabili e necessari, stridenti, palpitanti, remoti... Non so cosa pensasse, se davvero elevasse le sue preghiere pagane a dèi silvestri e driadi lamentose. Lo immagino perso dentro pensieri d’abisso, ma forse pregavano soltanto i suoi occhi scuri indugiando sulle pieghe ondulate del tessuto: lui intento a sciogliersi come zucchero di canna nel mio caffè dal profumo di terra, torbido come acqua palustre e come lei gravido di vita. Finsi di dormire. Sentii le sue dita sfiorarmi i capelli, sulla nuca. A quel primo contatto, ancora immersa in parte nel torpore del sonno, vidi l’interno scuro di me illuminarsi in milioni di scintille. Sospirai, sorrisi.


Rio Inferno



Qualcuno non si è accorto di nulla finché non è stato svegliato dai vicini che urlavano sotto le sue finestre, altri hanno sentito un borbottio sordo, altri un boato. I cani si agitavano nei cortili già dalla sera prima. Verso le tre di notte la montagna ha trattenuto il respiro per qualche istante, poi ha liberato le viscere nel canale del Rio Inferno.
Era stata un’estate piovosa ed era quasi autunno: mancavano meno di due settimane all’inaugurazione del Salone Manifatturiero Regionale e all’evento, che aveva cadenza triennale, l’Amministrazione si stava preparando da tre anni. Gli spazi espositivi e ricettivi erano stati ampliati, gli ingegneri si erano arrampicati lungo le sponde dei torrenti restringendone i letti con protuberanze edilizie prefabbricate, avevano spalmato di cemento i muri degli edifici confinanti per ricavarne espansioni pensili che seguivano l’audace pendenza della città, che se ne stava in verticale dalla notte dei tempi – con la testa in montagna e i piedi nel lago.
Prigioniera paziente, la montagna aveva bevuto fino al parossismo. Gorgogliando idropica aveva inquietato le bestie che auscultavano il terreno con le zampe. Se n’era accorto anche qualche umano: i vecchi che da giorni non trovavano più uova nei pollai, la maestra elementare che parlava con gli alberi (oltre che con i defunti e con la statua della Madonna che teneva in soggiorno) e il rabdomante che aveva sollecitato già un paio di volte quelli dell’Ufficio Tecnico sostenendo che “la bacchetta non punta più, e se punta dappertutto non va bene”. Quella notte lo stomaco della montagna fu sazio. Un’eruzione orizzontale d’acqua e di roccia si proiettò a valle attraverso un unico cratere grosso come l’imbocco di una galleria autostradale. Enormi blocchi di granito esplosi dal petto roccioso della Terra, come se un proiettile l’avesse trapassato sparpagliando brandelli lacerati di materia viva, furono spinti lungo il letto del Rio Inferno verso la città. L’esiguo corso d’acqua decuplicò il suo bacino mentre un rumore di schianti ininterrotti accompagnava il crollo degli edifici intonacati di fresco. Gli allegri colori pastello delle facciate furono coperti da un velo fangoso e tutto, lungo il corso degli affluenti del lago e intorno ad essi, si tinse di grigio palustre. Gli uomini stavano sognando temporali equatoriali, foreste pluviali e pluvia magna quando il frastuono li svegliò e si accorsero del fiume argilloso che scorreva in camera da letto. Sulla strada, carcasse d’automobili rotolavano insieme agli alberi e ai sassi. Un cane legato alla catena scese lentamente preceduto dalla sua cuccia di legno e andò a incastrarsi in un tornio piovuto da chissà dove che sostava accanto alla cabina del telefono. Sulla cuccia, una mano di bambino aveva scritto ‘Byron’ in panciute lettere blu cielo. Byron guardava il giorno che sorgeva con occhi di tenebra.
All’alba, tra ruspe ed elicotteri della Protezione Civile, uomini indaffarati cercavano di salvare i loro beni sommersi. Il rabdomante, sprofondato nel fango fino ai fianchi dentro gli stivali da pesca, vagò tra loro per un po’ osservando le operazioni di soccorso – efficienti, concitate, militarmente ineccepibili – e la montagna che continuava a vomitare acqua dal ventre inesausto. Poi si voltò e si diresse barcollando verso le tende, erette per accogliere gli sfollati, spingendosi con fatica attraverso il gelido stagno marrone che fino al giorno prima era stato la sua strada di casa. Improvvisamente ricordò di aver perduto la bacchetta, ma fu il pensiero di un momento: cercare acqua non serviva più.


©Laura De Matteis 2010

31 dicembre 1899



C’era qualcosa di particolare nel modo in cui egli attendeva, la grazia di chi ci tiene a far notare di non essere lì solo per quello. Attendeva con grazia davanti al negozio di Rascaux, mentre il nuovo anno avanzava lentamente dall’altra parte del fiume trascinandosi dietro volute sottili di foschia e giovanotti in redingote marrone che lanciavano sassolini alle stalattiti ghiacciate che pendevano dai lampioni, infrangendole in una pioggia di scintille trasparenti. Quando la piccola corte lo raggiunse, egli si toccò la falda del cappello con cortese nonchalance, poi estrasse un orologio d’argento dal taschino del panciotto e gettò uno sguardo distratto alle lancette ferme sulla mezzanotte. Il nuovo anno attese per qualche istante che l’uomo si accodasse all’elegante corteo, ma lui continuava ad aspettare valutando senza particolare interesse gli articoli esposti nella vetrina addobbata a festa: non era lì solo per quello, non solo per attendere loro. L’anno nuovo infine si mosse lentamente verso le vie del centro, seguito dai signori in redingote. L’uomo li guardò allontanarsi accennando un sorriso compiaciuto – il suo orologio segnava mezzanotte e uno. Era da centosessantacinque anni che gli andava bene: da centossessantacinque anni lui ne aveva trentatré.