domenica 22 maggio 2011

Meditazione



Ci chiedevano di inginocchiarci al buio con una candela davanti e meditare. Bruciare incenso e immaginare le sue volute grigie raggiungerci e attorcigliarsi a noi come serpenti odorosi.
Non ci riesco. La mente scavalca la volontà e si libera in pensieri autonomi, come sogni coscienti che posso afferrare e muovere, nastri di organza senza peso che spingo lontano muovendo le braccia come ali di vetro.
Gli ulivi inanellano minuscoli fiori chiari che tremano aspettando la tempesta e il bosco pulsante sembra un'arpa di ossa che respirano, lo sterno si alza e si abbassa mandando lamenti che l'aria raccoglie nel grembo azzurro e porta fino a me e al mio meditare titanico e insonne.
Dalla finestra degli occhi vedo gli Spiriti di cui sono scrigno tutte le cose.
E c'è gioia e disinteresse benevolo per le vicende degli uomini. Divinità distratte non sanno meditare su di me se non li chiamo in un Cerchio dove possa riempirmi della loro bellezza elementare, parlare attraverso i miei multipli corpi silenziosi e danzanti, osservare gli antenati che procedono lungo il fiume conversando o tacendo - come fanno in molti, non avendo più nulla da chiedersi.
E' sereno il pomeriggio nelle nuvole che occultano il fardello del Sole facendomi presagire la sera che scende quasi di un quarto di Luna verso la saggezza del buio. Un uomo sbriciola pane secco sull'acqua perché accorrano i germani schiamazzanti che portano la parola della madre gravida del mondo ed è quasi pioggia mentre scricchiolano i merli il becco giallo sui semi della stagione trascorsa.
Non importa.
Le dita dell'incenso si assottigliano e Mjolnir rimbomba in lontananza. Ho spento la candela. Gli dèi tornano ai loro banchetti di idromele e io ai miei giorni decidui, certa che ovunque intorno a me si diramino i sentieri dell'immortalità.


Playlist



Non sono abituata a infilarmi gli auricolari e ascoltare musica. L'ho fatto oggi, ossessivamente, per cercare di ricavarmi una dimensione diversa da quella in cui mi trovavo a trascorrere le ore. Ho scelto poche canzoni - per la maggior parte del tempo soltanto due - e mi sono ascoltata ascoltarle.

Ho una scheggia nel polpastrello del dito indice della mano destra. Non fa male, mi si è infilata lì mentre sbriciolavo le foglie secche di faggio per farne incenso o incantesimi. Non fa male: ricorda che il legno può penetrarci senza ferire e far parte di noi - Dafne, lo sai.

Ora si apre una finestra stretta nel fianco di una parete di sasso. Da lì sentiamo precipitarsi il mare in fondo a un abisso d'aria che sembra di vedere in vortici grigi senza foglie, solo minuscole gocce salate trasportate dal vento fino ai nostri occhi serrati. Poi arriva lui, lo stesso che cerca di portarmi a letto da anni, a ogni Luna piena. Ha lo stesso sguardo da animale selvatico di ogni volta, mentre io ho lo stesso sguardo da lupo mentre lo annuso da lontano. Il suo odore trasportato dal buio è infinite particelle di ricordi schizzatemi in faccia insieme al turbinio del mare nel vento sulla torre. Ricordi non miei, di tutti. Ci sono torbiere e nebbia, cammini su sentieri rocciosi che si arrampicano fino alle montagne, pozze imputridite, voli di insetti. Ma non vado con lui, né con i ricordi che porta.
Torno alla profonda strombatura della finestra di sasso e guardo giù un'àgave che proietta il suo germoglio estremo sul precipizio che cova onde schiumose. Lanciarmi oltre l'àgave, oltre il mare, farmi accogliere da dèi capricciosi che attraversano il trascorrere del Tempo su carri scuri trainati da capre digrignanti. E capisco che non c'è nulla da rimpiangere, solo leggere i segni del passare dei carri divini mischiati al chiarore del crepuscolo e aspettare di saperne di più - dopo le finestre chiuse, le àgavi erette, il mare ribollente e gli uomini sognati dentro una canzone sexy, con gli occhi da animale selvatico e le dita svelte di chi tocca corde di chitarra e carne femminile.