mercoledì 30 dicembre 2009

Ombra di Tango



L’abito scuro pendeva dalla gruccia appesa all’anta dell’armadio.
Impeccabile. Buio.
Aveva atteso quel momento per mesi. Si era preparato a lungo, l’aveva seguita mentre tornava dal lavoro attraversando con quel suo passo caratteristico, in dissociazione, lo strepitìo inarrestabile del quartiere latino. L’aveva osservata provare le figure davanti allo specchio, le mani appoggiate al lavandino come fosse la sbarra di una ballerina vera. Aveva sorriso mentre la ascoltava parlare tra sé, rimproverarsi da sola, scuotere la testa con impazienza e pestare i piedi sul pavimento di legno quando qualcosa non le riusciva come voleva. Aveva percepito una sensazione di crollo, di elevazione, un tonfo vibrante nelle viscere quando per la prima volta l’aveva vista provarsi il vestito nero in camera da letto, svestirsi e rivestirsi come un’attrice la sera del rehearsal, restare seminuda a sistemarsi un gancetto del reggicalze e poi controllarsi le cosce allo specchio, toccarsi le forme morbide dei fianchi, dei seni, ridendo mentre giocava con la sua immagine riflessa. In quei momenti avrebbe desiderato averla subito, non dover aspettare una sola notte in più per quella carne bianca, sottile, per quelle gambe forti, flessibili come salici di fiume. I suoi capelli – raccolti o sciolti, questa sera? – scuri come una nuvola di temporale estivo e con lo stesso profumo della pioggia, dell’erba…
Ciò che lo stordiva completamente, però, era sentire la sua anima.
C’era in lei qualcosa di aguzzo, uno spirito invasivo, penetrante, che lo attraversava come un fascio di luce radioattiva. La sentiva pensare, emozionarsi, infuriarsi, eccitarsi, piangere. Vedeva il fuoco che le incendiava i piedi e il ventre, che muoveva gli ingranaggi instancabili del suo cervello; sentiva la sua forza testarda, la sua lotta di animale selvatico che sopravvive con astuzia, con cinismo spietato. Eppure era limpida. Empatica e partecipe con tutti gli esseri viventi…
E ballava il Tango. Ballava aggrappandosi al desiderio di essere guidata. Smetteva di lottare solo lì. La sua Energia, un amplesso disperato che grondava dai suoi passi, dalle braccia eloquenti, dagli occhi semichiusi, tristi…
L’aveva incontrata così, una sera di molti anni prima, nella milonga deserta. Fumava una sigaretta seduta a un tavolino, sola. Gli occhi foravano l’oscurità fumosa che riempiva la sala, le dita accarezzavano un bicchiere, pensierose. La volle subito. Nell’istante stesso in cui vide le labbra di lei posarsi sul filtro della sigaretta appena accesa seppe di volerla, di volere quelle labbra sulla sua carne, sul suo respiro. Si era avvicinato per domandarle un tango – guardava verso di lui – la mirada! – un cabeceo discreto. Spense lentamente la sigaretta nel piattino di ceramica blu, un’ombra di cenere sulla tovaglia scura, e gli occhi taglienti tornarono a guardarlo. Si stava alzando… Sarebbe stata sua. Sapeva che quel tango sarebbe durato fino alla fine del tempo – oltre il Tempo – Ovunque.
Poi qualcuno gliela portò via.
Il ricordo ora è offuscato dalla confusione che la memoria di quello stranissimo dolore gli riporta. Vede un uomo fermarsi davanti a lei e parlare. Pensa debba conoscerlo, perché sorride imbarazzata mentre cerca di rifiutare le mani che hanno già allacciato le sue e la trascinano in mezzo alla sala. Tango lento.
Ancora uno sguardo. Uno scusarsi silenzioso – “Prometto il prossimo… Non te ne andare.”
Cosa successe dopo, non sa perché non lo ricordi più.
L’ultima immagine è un voltarsi ancora verso di lei, vederla ballare come una poesia sussurrata bevendo un bicchiere di vino. Poi fuori, l’aria della sera. Una sigaretta prima di rientrare. Concedergli almeno tre balli, è doveroso – poi farsi accompagnare al tavolo.
Io sarò lì.
Dev’essere accaduto qualcosa, però. Un rumore confuso. La vede uscire in lacrime – il trucco le cola sulle guance come ruscelli di tenebra. L’uomo che prima ballava con lei le è ancora accanto, le appoggia la giacca sulle spalle scoperte e la conduce – refrattaria, adesso, indomita! – verso un’automobile ferma all’altro lato della strada.
I fari si riflettono nelle pozzanghere sul selciato mentre l’auto si allontana portandosi dietro il suo corpo, il suo profumo… L’anima rimane lì. La vede infrangersi nelle luci spezzate, sopra un telo bianco, sopra le voci concitate che si accavallano una sull’altra in un caos insopportabile.
Fu da quella notte che cominciò a seguirla per riprendersi quel tango interrotto con violenza, per riprendersi l’emozione, la vita. Lei però non ballò più.
Trascorsero diversi mesi prima che tornasse a muovere timidamente alcuni passi, chiusa nella sua stanza, sovrappensiero – mentre riassettava, mentre stendeva il bucato ad asciugare sopra la vasca da bagno, mentre sorseggiava il caffè guardando fuori dalla finestra… Un giorno – fuori pioveva – mise su un disco e chiuse gli occhi.
Si mise a danzare con la pioggia, in equilibrio perfetto. Le braccia che stringevano l’aria come se fosse un uomo disperatamente atteso.
Quel giorno lui sorrise. Sapeva che avrebbe soltanto dovuto aspettare il momento giusto, e una notte lei sarebbe tornata in milonga – lui sarebbe stato lì e tutto sarebbe continuato come se non fosse trascorso nemmeno un istante: tutto come sarebbe dovuto essere.
La sentiva sotto le sue mani, ora che la vedeva scivolare nella penombra della piccola stanza al terzo piano, ad occhi chiusi, quasi fluttuante tra i mobili disposti con casualità in mezzo a scarpe e vestiti abbandonati. Sentiva che anche lei stava pensando di ballare con lui – anima nell’anima – agganciati.
Continuarono così per molti mesi. Il lavoro, la spesa nel mercato sotto casa, la colazione al bar – stesso tavolino, stesso caffè. Ogni tanto, un’amica la portava a bere in un locale dove suonavano Jazz e la faceva ridere fino alle lacrime – il trucco cola in bagliori azzurri, ora, il respiro spezzato, le mani che si agitano davanti al viso come a negare, a nascondere la fuga liberatoria verso un’adolescenza lontana… Lui era sempre lì, da qualche parte, a sorridere, a nutrirsi del profumo di donna che arrivava fino a lui come uno schiaffo quando, accavallando le gambe con noncuranza, un raggio di carne risplendeva furtivo. Era lì, seduto due tavoli più in là, a fumare le sue stesse sigarette, ad assaporare col pensiero le sue labbra rosse, socchiuse.
Finalmente, un pomeriggio la vide entrare in un negozio dell’affollato quartiere latino. La vetrina stretta, stipata di vestiti, sembrava riflettere i colori della frutta che occhieggiava ai passanti dalle cassette ordinate nel carretto di un ambulante, sul marciapiede. Non osò seguirla dentro il piccolo negozio: la immaginò soltanto mentre sceglieva con attenzione l’abito più adatto a lei, quello in cui si sarebbe sentita di nuovo a proprio agio, quello dentro il quale avrebbe camminato ancora, come un drago strisciante, sul pavimento sporco di una sala da ballo – e sarebbe stato nero, lo sapeva.
Uscì con il sorriso soddisfatto di chi abbia appena compiuto con gran gusto un’azione riprovevole e una busta di cartone blu, la scritta rossa “Lady Marie’s” che dondolava rimbalzando contro la sua gamba di salice, mentre attraversava la strada. Dall’altra parte l’aspettava l’uomo della milonga, il rapitore di quella sera lontana. Si erano incontrati molte volte da allora: aveva visto spesso quell’uomo fermo ad aspettarla davanti al portone di casa, la sera, al ritorno dal lavoro. Chiacchieravano un po’, ogni tanto lei sorrideva sistemandosi una ciocca di capelli, poi si salutavano con un bacio sulla guancia e lei spariva dietro il portone verde, sola. L’uomo rimaneva a guardare la finestra al terzo piano finché nella stanza non si accendeva la luce e una mano discreta avvicinava le tende amaranto. In quel momento, sulla facciata del palazzo era come se si aprisse un occhio di fuoco screziato dall’ombra di lei che si muoveva come uno spirito attraverso le fiamme del suo inferno domestico. L’uomo fissava quel bagliore per qualche istante ancora, poi si incamminava lentamente verso il viale alberato, verso il tunnel del metrò.

Quel pomeriggio non si allontanò. Non si salutarono sulla soglia: rimasero a parlare a lungo, sempre più vicini. La busta “Lady Marie’s” cadde ai piedi di lei come un vestito stanco. Mentre l’uomo cercava di abbracciarla, scosse la testa più volte, sempre più debole, sfinita, finché non appoggiò la fronte sulla spalla di lui e pianse silenziosa.
Salirono nella stanza al terzo piano tenendosi abbracciati.
Il vecchio portone verde si chiuse complice alle loro spalle. La tenda rossa non si accostò – per molte ore un occhio di luce balenò sulla facciata assopita, poi si spense.
Lui restò lì, sul marciapiede di fronte, come trafitto da una lancia di nulla. La notte si sciolse lenta nella foschia di un’alba incerta, viscida sotto i piedi di lui che rimaneva immobile a fissare il silenzio, a contemplare il dolore che gli scorreva sull’anima come olio bollente gettatogli addosso da un dio impietoso. Sentiva il ghigno sordido del Sadico Burattinaio che governava i fili della sua esistenza con il piacere perverso di annientarlo, e quando giunse il giorno – un giorno grigio come l’abito cosparso di rugiada che indossava – lui, annientato, si allontanò.
Non volle più passare accanto a quella casa. Vagava inosservato, stordito, per le strade rumorose; le risate della gente ferma a chiacchierare davanti ai negozi, le corse dei bambini tra le gambe delle madri, giungevano al suo spirito come pugnali nella carne. Non voleva pensarla – non poteva! – eppure la vedeva continuamente riflessa dietro lo schermo delle sue palpebre chiuse, la sentiva vivere… Sentiva il suo calore, il profumo della sua pelle mentre amava quell’uomo – l’odore di entrambi, mischiati: corpi fusi tra le lenzuola di cotone. Le sue cosce allacciate ai fianchi di lui, le lacrime che lasciavano i suoi occhi nell’orgasmo, l’abbandonarsi sereno nell’abbraccio muto del sonno…
Una sera decise di tornare alla milonga dove l’aveva incontrata la prima volta – quanto tempo era passato? Non riusciva a immaginarlo. Aveva atteso quel momento tanto a lungo… L’abito scuro pendeva dalla gruccia appesa all’anta dell’armadio. Impeccabile. La percezione dello scorrere dei giorni, delle ore, era come dilatata nella sua mente che sembrava dominare tempo e spazio dall’Oltre, come in volo sopra una pianura sconfinata dove si riversavano i fiumi di migliaia di esistenze estranee e non più estranee, insieme. Non sapeva se lei ci sarebbe stata. Aveva smesso di seguirla, di osservarla vivere. L’aveva persa e aveva scelto di non lottare più, eppure adesso era di nuovo lì, davanti agli scalini che scendevano nella sala dal pavimento di legno e i tavolini con i posacenere blu. Sedette allo stesso tavolo di quella sera lontana, in penombra.
Lei non c’era.
Il fumo avvolgeva l’immagine di coloro che ballavano rendendoli incerti fantasmi sospesi a mezz’aria, volteggianti come i dannati del secondo cerchio dantesco – stretti e dolenti, eppure più forti della morte che divide: eternamente fusi. La musica attraversava la carne, lacerava lo spirito nel bisogno fisico di lei, nel desiderio. Il ricordo di quella sera tornava vivido – un dolore acuto al ventre, alla schiena, una luce insostenibile che sfuma lenta nel buio incosciente…
Poi arrivò.
La vide entrare guardandosi attorno con aria incerta, intimorita. Indossava un abito di raso nero, quello che le aveva visto provare tante volte davanti allo specchio, nelle solitarie rappresentazioni della sua bellezza... Sapeva perfettamente anche quale biancheria indossasse, poteva vederne le piccole cuciture che fermavano i nastri al pizzo nero che aderiva alla sua pelle come uno svolazzo d’inchiostro, un tatuaggio mobile e pulsante sotto l’allusiva in-decenza del raso. Lo spirito sprofondò nell’abisso verticale senza un rumore, risucchiato da una forza incontrollabile alla quale non desiderava opporsi più.
Quando i loro sguardi si incrociarono, il timido disagio scomparve dai suoi occhi che improvvisamente si fecero fieri, profondi, consapevoli. Attraversò la sala con fermezza per raggiungere lo stesso tavolo di allora – i salici delle sue gambe ondeggiavano dentro le scarpe rosse restituendo l’immagine di un demone con i piedi ancora immersi nel fuoco dell’inferno. Sedette lentamente ed accese una sigaretta – gli occhi sempre fissi su di lui.
Quando si alzò, l’uomo sentì le gambe cedere dentro l’ abito scuro, un brivido lo percorse come una scarica elettrica, migliaia di istantanee del corpo di lei gli ferirono il cervello come la luce abbagliante di un faro, il suo odore lo travolse trascinandolo nell’estasi dolorosa del ricordo. Lei continuava a guardarlo. Qualche passo. La musica cambiava. Un celebre tango apasionado lo spinse verso di lei, la mano che si tendeva discreta mentre lei si alzava. La donna si voltò un istante, tolse una piccola rosa selvatica dalla borsetta che aveva posato sulla sedia accanto, poi continuò ad avanzare verso di lui – gli occhi fieri, pieni di lacrime.
Fu in quel momento che cominciò l’Eterno.
Lei lo attraversò guardando oltre il suo viso sconvolto dall’angoscia della Comprensione: guardava il tavolo dove lui era seduto, e la tovaglia scura.
La vide poggiare la piccola rosa rosso cupo proprio dove lui si trovava fino a poco prima, quella sera lontana, poi chinarsi e piangere – le spalle bianche sussultavano scivolando meravigliose tra le spalline sottili dell’abito nero. L’uomo di quella sera e delle molte altre nell’appartamento al terzo piano finalmente si avvicinò e la strinse – l’aveva visto entrare insieme a lei ma non aveva voluto vederlo fermarsi accanto alle scale, discreto, in attesa di veder compiersi un rito dal quale egli si sapeva escluso. Lei ricambiò l’abbraccio, con le mani asciugò le poche lacrime che ancora le rigavano il viso e si lasciò condurre via, attraverso il fumo denso delle sigarette accese, attraverso l’odore delle decine di corpi persi uno dentro l’altro nel loro amplesso tanguero.
La vide voltarsi ancora una volta poco prima di salire le scale per uscire. Ancora uno sguardo alla rosa abbandonata sul tavolino vuoto, uno sguardo ancora a lui che pian piano si allontanava dal suo abito scuro – Impeccabile. Buio. – evaporando nel fumo azzurrino.
Spegnendosi come un’eco, come l’ultima immagine prima di scivolare nel sonno, le note sfumavano nella milonga lontana.
Lui non era più.



©Laura De Matteis 2009

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