giovedì 6 gennaio 2011

Frammento Siciliano



Le sue parole avevano la stessa consistenza del fumo azzurrino esalato da un braciere. L’aroma ipnotico di un velo d’assenzio sulla lingua, la singolare fragranza di cannella che persiste dentro la tazza vuota. Soltanto lì camminavo a piedi nudi sul pavimento di ceramica: c’era un terrazzo coperto di maioliche di scarto e mi perdevo a scoprirne gli incastri sotto il sole, a intuirne i disegni frondosi, i labirinti geometrici e i cavalli tesi al galoppo che conducevano paladini furiosi contro i mori. Allegoria cosmica, dicevo, metafora terrestre isterica e sinfonica, come il rumore del mare che proveniva dagli scogli taglienti che raggiungevamo con la barca per lasciarci imprigionare da tentacoli d’alghe finché non potevo più distinguere le mille braccia del mare dalle sue, il sale dalle labbra sapienti, le onde dal moto cadenzato dei suoi fianchi. Mi sono lasciata amare da un tritone, ripetevo sussurrando alla sua pelle quando mi abbandonavo sui minuscoli ciottoli della riva lasciandomi accarezzare dall’acqua più calda delle sue mani. Lui sorrideva, poi mi riempiva i capelli di alghe verdi e mi chiamava Egeria. Io ribattevo Phlebas e il tramonto ci sorprendeva a dondolare nella nenia dell’acqua, ancora uniti.
La casa era in cima al paese, circondata da agavi pazienti, polvere e sole. Mi svegliai tra le lenzuola di lino, rigide e fresche come un frusciare di foglie, l’odore del caffè mi scivolava sugli occhi, l’aria che entrava dalla porta socchiusa del terrazzo mi scorreva in tonde spirali sulle spalle come un filo di perle. Il rumore del mattino era color ocra, tintinnava come una manciata di monetine sulla strada di pietra levigata dai passi, dai giochi, dai carretti, dalle processioni dei santi, dai soldati, dai funerali, dall’incedere assonnato dell’uomo dei giornali, con la sigaretta accesa. Il mattino picchiettava con le unghie del sole sui vetri tiepidi, lanciava sassolini di luce sulle persiane screpolate, sbirciava tra le tende di organza per accorgersi del mio respiro. Lui si avvicinò silenzioso. Talvolta mi osservava sorridere con gli occhi ancora chiusi, incerta, indolente, sazia di sonno ed ebbra del profumo di noi sopra il cuscino. Accarezzò un lembo del lenzuolo, ne sgranò l’orlo ricamato a giorno come un rosario bianco sotto le dita brune. Le sue mani erano i tasti neri di un pianoforte in do diesis maggiore: inspiegabili e necessari, stridenti, palpitanti, remoti... Non so cosa pensasse, se davvero elevasse le sue preghiere pagane a dèi silvestri e driadi lamentose. Lo immagino perso dentro pensieri d’abisso, ma forse pregavano soltanto i suoi occhi scuri indugiando sulle pieghe ondulate del tessuto: lui intento a sciogliersi come zucchero di canna nel mio caffè dal profumo di terra, torbido come acqua palustre e come lei gravido di vita. Finsi di dormire. Sentii le sue dita sfiorarmi i capelli, sulla nuca. A quel primo contatto, ancora immersa in parte nel torpore del sonno, vidi l’interno scuro di me illuminarsi in milioni di scintille. Sospirai, sorrisi.


1 commento:

7di9 ha detto...

Colori e sapori, suoni e passione. Lettura coinvolgente e colorata, viva, ecco. Di certo, che si tratti di fantasia o di memoria, o di entrambe le cose - o di nessuna delle due - nulla è sfuggito alla penna, così come nulla sfugge al lettore.

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