giovedì 6 gennaio 2011

Rio Inferno



Qualcuno non si è accorto di nulla finché non è stato svegliato dai vicini che urlavano sotto le sue finestre, altri hanno sentito un borbottio sordo, altri un boato. I cani si agitavano nei cortili già dalla sera prima. Verso le tre di notte la montagna ha trattenuto il respiro per qualche istante, poi ha liberato le viscere nel canale del Rio Inferno.
Era stata un’estate piovosa ed era quasi autunno: mancavano meno di due settimane all’inaugurazione del Salone Manifatturiero Regionale e all’evento, che aveva cadenza triennale, l’Amministrazione si stava preparando da tre anni. Gli spazi espositivi e ricettivi erano stati ampliati, gli ingegneri si erano arrampicati lungo le sponde dei torrenti restringendone i letti con protuberanze edilizie prefabbricate, avevano spalmato di cemento i muri degli edifici confinanti per ricavarne espansioni pensili che seguivano l’audace pendenza della città, che se ne stava in verticale dalla notte dei tempi – con la testa in montagna e i piedi nel lago.
Prigioniera paziente, la montagna aveva bevuto fino al parossismo. Gorgogliando idropica aveva inquietato le bestie che auscultavano il terreno con le zampe. Se n’era accorto anche qualche umano: i vecchi che da giorni non trovavano più uova nei pollai, la maestra elementare che parlava con gli alberi (oltre che con i defunti e con la statua della Madonna che teneva in soggiorno) e il rabdomante che aveva sollecitato già un paio di volte quelli dell’Ufficio Tecnico sostenendo che “la bacchetta non punta più, e se punta dappertutto non va bene”. Quella notte lo stomaco della montagna fu sazio. Un’eruzione orizzontale d’acqua e di roccia si proiettò a valle attraverso un unico cratere grosso come l’imbocco di una galleria autostradale. Enormi blocchi di granito esplosi dal petto roccioso della Terra, come se un proiettile l’avesse trapassato sparpagliando brandelli lacerati di materia viva, furono spinti lungo il letto del Rio Inferno verso la città. L’esiguo corso d’acqua decuplicò il suo bacino mentre un rumore di schianti ininterrotti accompagnava il crollo degli edifici intonacati di fresco. Gli allegri colori pastello delle facciate furono coperti da un velo fangoso e tutto, lungo il corso degli affluenti del lago e intorno ad essi, si tinse di grigio palustre. Gli uomini stavano sognando temporali equatoriali, foreste pluviali e pluvia magna quando il frastuono li svegliò e si accorsero del fiume argilloso che scorreva in camera da letto. Sulla strada, carcasse d’automobili rotolavano insieme agli alberi e ai sassi. Un cane legato alla catena scese lentamente preceduto dalla sua cuccia di legno e andò a incastrarsi in un tornio piovuto da chissà dove che sostava accanto alla cabina del telefono. Sulla cuccia, una mano di bambino aveva scritto ‘Byron’ in panciute lettere blu cielo. Byron guardava il giorno che sorgeva con occhi di tenebra.
All’alba, tra ruspe ed elicotteri della Protezione Civile, uomini indaffarati cercavano di salvare i loro beni sommersi. Il rabdomante, sprofondato nel fango fino ai fianchi dentro gli stivali da pesca, vagò tra loro per un po’ osservando le operazioni di soccorso – efficienti, concitate, militarmente ineccepibili – e la montagna che continuava a vomitare acqua dal ventre inesausto. Poi si voltò e si diresse barcollando verso le tende, erette per accogliere gli sfollati, spingendosi con fatica attraverso il gelido stagno marrone che fino al giorno prima era stato la sua strada di casa. Improvvisamente ricordò di aver perduto la bacchetta, ma fu il pensiero di un momento: cercare acqua non serviva più.


©Laura De Matteis 2010

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