venerdì 21 gennaio 2011

Ottobre 1917



Sedeva sulla poltrona marrone, quella dietro il muretto che separava il salottino dal tavolo da pranzo. I capelli scuri, lunghissimi, raccolti in due trecce attorcigliate sulla nuca.
Era quasi sera, l’autunno inoltrato del 1917. Sedeva in silenzio nella penombra che avanzava, le mani sfogliavano un piccolo album dalla copertina di tela rossa. Tra le pagine, cartoline illustrate raccontavano la guerra: donne rapite, orfani, soldati al fronte che portavano orgogliosi la bandiera italiana attraverso le trincee, lo sguardo fisso sulle schiere nemiche, e le montagne – le montagne ovunque, gelide, impassibili, che si lasciavano scorrere addosso sangue, lamenti e morte. L’Isonzo scorreva poco lontano, dietro un piccolo avvallamento del terreno. Per tutto il giorno si era sentito lo scoppio dell’artiglieria e nubi di polvere si erano alzate marroni dietro la curva dell'orizzone. La donna raccolse una cartolina e la lesse ancora una volta: erano le ultime parole che aveva ricevuto da lui, quasi tre mesi prima. Dopo, più nulla.
Si alzò lentamente, con dolore, come se il buio che ormai avviluppava la stanza fosse fatto di lame – baionette di oscurità che le infilzavano il petto come una madonna piangente. Si alzò e andò a riporre l’album dentro la scatola che lo custodiva da più di due anni, nel terzo cassetto del comò, dove aveva cominciato a raccogliere la biancheria nuova prima che la guerra sospendesse il tempo e la vita nel fiume sotterraneo dei morti, del gas e della sete.
Sentì freddo nel scendere le scale – un freddo che arrivava da lontano, dall’acqua putrida e gelata nella quale sprofondavano le gambe dei suoi tre fratelli, dei suoi amici, di tutti i ragazzi del paese… Dove sprofondavano le gambe di Pietro, se l’acqua non si era già presa anche tutto il resto, devastato dalle mazze ferrate degli austriaci nel feroce corpo a corpo, in trincea. La donna tornò indietro per indossare uno scialle pensante. Risalì le scale per scendere di nuovo poco dopo, nel buio più completo, avvolta in un vecchio mantello di lana grigia.

La stalla si trovava poche decine di metri più su, verso il fiume. Vi si diresse con passo fermo, attraversando il sentiero che si staccava dalla casa accompagnato dai sassi piatti che ne pavimentavano l’ingresso e che andavano via via disperdendosi fino a scomparire in una stradina quasi invisibile, in mezzo al prato. La stalla era soffocata dal silenzio della sera come un cadavere in un sudario sporco. Gli animali non c’erano più: l’esercito, passando, li aveva portati con sé ed ora rimaneva di loro soltanto l’odore dimenticato nel fieno e nel calore delle pareti di legno. La porta era socchiusa. L’oscurità, attraversata da brevi bagliori che filtravano dalle assi sconnesse.

- Ti aspettavo. Pensavo non saresti venuta più…

La divisa austriaca giace sulla paglia. Sul mantello di lana grigia due corpi avvinghiati. Corpi segnati dalla fame, dal freddo, dall’orrore… Corpi nemici che cercano di gridarsi l’un l’altro:

“Caporetto, 22 ottobre 1917. Sono ancora vivo.”


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